Santu Sparau o Santu Sperau

30.12.2012 18:23

Santu Sparau o Santu Sperau?

 

Il nome di un centro abitato è normalmente percepito come elemento identificativo di una comunità, in grado di sintetizzarne e palesarne le peculiarità agli occhi del mondo e non può essere ridotto a semplice convenzione linguistica. Non è perciò casuale che i toponimi siano uno degli aspetti più conservativi di una lingua, quelli che ammettono con più difficoltà cambiamenti e solo in virtù di sostanziali modifiche sociali: nuovi conquistatori, la nascita di un culto recente o il cambiamento dello status giuridico. Non fa eccezione il nostro comune, che dopo la probabile denominazione romana di Civitas Valeria, divenne, in un momento imprecisato ma per una ragione ormai assodata - l’arrivo cioè delle reliquie dell’omonimo martire africano - San Sperate. Il più antico documento che ne attesta il nuovo nome risale al 1300, dove viene riportata la forma Santu Speratu, risultanza regolare in lingua sarda della e lunga radicale del latino Speratus. Ed infatti l’indicazione stradale posta all’ingresso del paese riporta la dicitura Santu Sperau, con la “normalizzazione”, ossia col il rendere conforme alla norma, alle regole della fonetica sarda, la variante locale del nome. Eppure, per lo meno a memoria d’uomo, nessun abitante dei comuni limitrofi si è mai recato a Santu Sperau, né alcun fedele ha mai preso parte alle festività in onore di Santu Sperau, così come nessuno di noi si definisce speradesu: siamo sparadesusu, viviamo a Santu Sparau e celebriamo come patrono Santu Sparau. Cosa sia accaduto nei secoli che ci separano dalla prima attestazione certa del toponimo San Sperate, non è dato sapere; troppo scarsa, se non addirittura inesistente, la documentazione scritta e assenti gli studi in merito, per poter stabilire quando e soprattutto perché quella e si sia evoluta in un’anomala, per quanto non insolita, a. La variante di lingua campidanese parlata a San Sperate offre altri casi che presentano la stessa alternanza di e/a, con una chiara tendenza alla maggior apertura delle vocali radicali: fantana in luogo di fentana, versione comunque presente, ne è un tipico esempio.

La questione è assai complessa e chi scrive non ha, né pretende di avere, le competenze linguistiche necessarie per dare spiegazione di una simile difformità. Ciò che però questo discorso sottende, va oltre la semplice disputa accademica ed investe un campo più ampio del sapere e della coscienza collettiva di un popolo. È la norma o piuttosto l’uso a fare la lingua? Esiste davvero una sola lingua sarda in nome delle cui leggi sia giusto sacrificare la meravigliosa ricchezza delle parlate locali, ancor prima di averle adeguatamente studiate e catalogate? Ogni allontanamento dalla regola, soprattutto quando è antico e riguarda un elemento così rilevante della comunità come il nome del paese o del patrono, è semplice deformazione e come tale va corretta, o su connotu linguistico ha una sua ragione intrinseca e imprescindibile, in virtù della quale va mantenuto e preservato?

In conclusione, traslando nel concreto e nel particolare: Santu Sperau o Santu Sparau? Ai posteri e ai nostri concittadini, l’ardua sentenza.